Economia

UNA BANCA, LE SUE AZIONI E UNA FAMIGLIA CHE RIVUOLE I PROPRI SOLDI

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Può una banca truffare un socio, un cliente? Certamente no. Ma la storia che stiamo per narrarvi ha, comunque, dell’incredibile. E impone una riflessione collettiva sul ruolo oggi rivestito dal mondo del credito in una moderna società europea. Cosa sono diventate le banche? Strutture elefantiache che rispondono solo a se stesse o soggetti protagonisti dello sviluppo? Una famiglia, marito, moglie ed una figlia pensano bene di investire i risparmi di una vita di lavoro e sacrifici. La liquidazione del capofamiglia e ben due eredità. Acquistano azioni di quella banca. Soldi vincolati per 3 anni. Alla scadenza chiedono di ritirare la quota parte ma i soldi è come se fossero stati pignorati dalla banca. Dopo 5 anni, il cliente non riesce ancora a rientrare in possesso del proprio capitale investito. Sembra un brutto sogno. Ma, al risveglio, è la triste realtà. Quando parli con loro, l’ansia gliela leggi in viso. Dal racconto, emerge uno spaccato di ciò che sembra siano divenute le assemblee dei soci delle banche che, apparentemente, decidono.

La famiglia di cui parliamo ci chiede l’anonimato: possiamo solo dirvi che è di Cassano.  La chiameremo famiglia Verdi. Bruno Verdi è il capofamiglia, Bianca Verdi, la moglie, e Rosa Verdi, la figlia. L’istituto di credito è la Banca Popolare di Puglia e Basilicata. Tutto ha inizio nel settembre 2006. Bruno, dopo una vita di lavoro, va in pensione. I risparmi della sua esistenza, compreso il trattamento di fine rapporto lavorativo, vengono investiti. Si aggiungeranno, poi, ben due eredità. Le cifre che scriviamo sono fantasiose. Servono solo a rappresentare l’esempio. “Volevamo investire I nostri risparmi. Intendevo acquistare azioni dello stesso Istituto di credito”. La Banca, in quel momento, dice no. Evidentemente, non dispongono ancora di questa opzione, almeno nella misura richiesta. Ma non intendono perdere il cliente.

Per legarlo a sè, il Direttore propone a Bruno l’acquisto di titoli “pronti contro termine”: la banca vende un certo numero di titoli che sono “pronti”, immediatamente disponibili, per il cliente. L’istituto di credito, però, si impegna a riacquistarli dallo stesso cliente che beneficerà di interessi. Ciò avviene entro un “termine”, ossia una data stabilita. Il titolo, infatti, non può essere liquidato prima della data di scadenza, quindi è vincolato. “Portali qui e facciamo un pronti contro termine”, è la proposta del Direttore.  La proposta dei “pronti contro termine” non viene fatta a caso. La Banca comunica al cliente che quella soluzione è del tutto temporanea. Presto quell’Istituto di credito andrà incontro ad un aumento di capitale. E allora sì che sarà possibile acquistare azioni. Detto fatto. La data di scadenza del “pronti contro termine” è fissata al 28 dicembre 2006. Il giorno seguente, il 29 dicembre, questo pensionato può acquistare le azioni, la cosa più conveniente. Ne acquistano 2500 così ripartite: mille a ciascuno dei 2 coniugi ed altre 500 alla figlia, studentessa universitaria. Il possesso del titolo azionario ha anch’esso una durata ed una scadenza, pattuite al momento dell’acquisizione delle azioni. In questo caso, Bruno ha concordato 3 anni. Al termine, il cliente rivende il titolo alla Banca, ne ricava un interesse e rientra in possesso della quota capitale. Ma ci sono due particolari di fondamentale importanza. L’inoptato ed il dividendo.

Non è detto che tutte le azioni messe a disposizione da una banca siano acquistate dai clienti. Il socio gode del diritto a compartecipare ad un aumento di capitale della banca. E’ un diritto, non un dovere. Dunque, può non esercitarlo. Un certo numero di azioni resta non richiesto. Si tratta del cosiddetto “inoptato”. Ossia, su di esso non vi è alcuna opzione da parte dei soci. Questo inoptato è a disposizione di chi intende investire. Bruno chiede l’inoptato. Del resto, così gli suggerisce anche lo stesso Direttore di filiale. In tal modo, infatti, potrà convertire in azioni I titoli “pronti contro termine” già acquisiti. In suo possesso, infatti, solo 2500 azioni che valgono 9 euro ciascuna. Per un totale, dunque, di 22.500 mila euro. Deve investire tutto il resto dei suoi risparmi. “Così potrà esercitare I suoi diritti e chiedere l’inoptato”, dice il Direttore della Banca. Bruno accetta.

 

Ogni anno, l’Istituto di credito concede al possessore di azioni un dividendo, un interesse. “Ma il valore del dividendo non sono io a stabilirlo” – ricorda Bruno. “Lo decide la Direzione dell’Istituto di credito. Questa lo suggerisce al CdA della banca, che, a sua volta, approva. L’assemblea dei soci, poi, ratifica la decisione”. E alla fine i soci che votano sono per lo più dipendenti della banca, come vedremo. “Ogni anno mi mostravano I diagrammi e mi dicevano quale dividendo spettava”, dice Bruno. Trascorre il primo anno. Viene nominato un nuovo Direttore presso la filiale dove ha acquistato le azioni. “Noi, nel frattempo – dice ancora il signor Verdi – abbiamo sempre partecipato regolarmente a tutte le Assemblee dei soci. Ogni volta, ci era assegnato il dividendo. Il valore dell’azione subiva un incremento direttamente proporzionato all’entità del dividendo”. In sostanza, se il dividendo aumenta, ad esempio, di 40 centesimi, anche la singola azione varrà 40 centesimi in più.

Ancora Bruno: “Il nuovo Direttore mi diceva: ha visto quanto valgono, oggi, I suoi risparmi?. Rispondevo: me ne renderò effettivamente conto nel momento in cui avrò in tasca questo surplus”. Frattanto, Rosa Verdi, figlia di Bruno e Bianca, consegue la laurea. I genitori coltivano progetti. Hanno bisogno di denaro liquido. Contemporaneamente, c’è un terzo, nuovo, Direttore. “L’anno scorso gli ho chiesto: Direttore, come devo fare per ritirare un pò di questi soldi?”. Il cliente chiede di ritirare, con urgenza, una quota parte del suo personale investimento. Gli altri 2, quelli di Bianca e Rosa, rimarranno depositati in banca. L’impegno iniziale era che alla scadenza del terzo anno, Verdi sarebbe rientrato in possesso della quota investita. Ed i 3 anni scadono il 29 dicembre 2009. Non è scritto da nessuna parte che se oggi acquisti azioni non puoi ritirare il capitale per un decennio.

Quindi, “mi fecero capire che se intendevo vendere le mie azioni avrei potuto farlo solo al prezzo al quale le avevo pagate”. In assemblea dei soci comunicano che accantoneranno, nel cosiddetto fondo di riserva, una somma destinata al pagamento delle azioni di chi abbia intenzione di recedere. Bruno riceve una seconda lettera. “Mi dicono che, qualora avessi voluto vendere le mie azioni, avrei dovuto piazzarle ad un prezzo inferiore a quello stabilito nel corso dell’ultima assemblea dei soci”. Manca un servizio telematico per raccogliere gli ordini e confrontarli con i prezzi di acquisto. Non esiste. Non c’è traccia, per Verdi, di un regolamento. In compenso, dopo 1 mese, giunge una terza lettera. “Per miracolo il regolamento stavolta c’è, ed è valido da luglio 2010. Guarda caso, la mia richiesta è antecedente all’entrata in vigore del regolamento, è datata aprile”.

A novembre 2010, un’assemblea straordinaria per la nomina dei nuovi consiglieri di amministrazione. Per motivi di salute, si dimette il Presidente del CdA, Raffaele D’Ecclesis, un avvocato di Gravina. Il vice-Presidente, Pasquale Caso, anch’egli avvocato, è il nuovo numero uno della Banca.  In quella occasione Bruno afferra il microfono e in assemblea racconta la sua storia. “Tutti i fedelissimi hanno tentato di fermare il mio intervento. Pensi che i tempi per ogni intervento sono rigidi, 3 minuti. In 3 minuti non si può dire tutto. Il mio intervento dava fastidio a qualcuno”. Non basta. La Banca Popolare di Puglia e Basilicata non aveva soldi per restituire il dovuto a Bruno. Tuttavia, “nel corso della riunione, sono transitati sotto i miei occhi 400mila euro. Il nuovo Presidente della Banca, pur sapendo della nostra presenza, ed essendo a conoscenza della nostra richiesta di conversione delle azioni in denaro liquido, ha proposto di elargire un bonus da 400mila euro al Presidente dimissionario, D’Ecclesis”. Verdi viene invitato successivamente ad una riunione a Gioia del Colle: “Hanno insistito affinchè io accettassi di rivendere le azioni ad un prezzo inferiore a quello stabilito. Mi invitarono a firmare un nuovo modello. Mi promisero che mi avrebbero restituito tutto quanto prima. Dissi loro che i soldi mi servivano entro il 31 dicembre. E mi risposero: 31 dicembre? No, facciamo il 31 gennaio”.  Oggi, mi dicono che le azioni posso rivenderle a patto che si trovi un nuovo acquirente. Ma siccome tutti sanno che le azioni vengono fatte pagare meno di quanto stabilito in assemblea, chi oserà acquistare le mie azioni?”. Attendono che vi sia un ulteriore aumento di capitale, previsto, forse, per la fine del 2011. “Il mio è diventato un investimento forzoso. Un anno fa chiedevo il disinvestimento per complessive 18mila azioni. Me ne hanno pagate solo 5mila. Quanti anni dovrò attendere per le altre 13mila?”.

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