Cultura

ALBANESI, VENTI ANNI DOPO. UN RICORDO DI VITO CAMPANALE

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Sono trascorsi 20 anni dal grande sbarco dei profughi albanesi sulle coste della Puglia. Una “invasione” che ha diverse somiglianze con quella di questi giorni e che all’epoca coinvolse anche Cassano. A questa vicenda il settimanale di Cassanoweb, “La voce del paese” ha dedicato nello scorso numero una serie di servizi ma oggi abbiamo voluto affrontarla anche da un punto di vista “letterario”.

Abbiamo chiesto a Vito Campanale, cassanese, autore del fortunato volume “La siepe del rosmarino” di tracciare un ricordo di quegli anni, delle sue sensazioni e di quella di una intera generazione. Ne è venuto fuori un articolo interessante e nostalgico.E di questo ringraziamo Vito ancora una volta.

Un ringraziamento va anche ad un ns. lettore, Antonio Sorino, che ci ha fatto pervenire la foto che vedete: si tratta dell’intervento del Corpo Militare E.I.-S.M.O.M. nel periodo marzo-aprile 1997 presso il Camping cassanese “Orsa Maggiore”.


 

Tornare oggi, a vent’anni di distanza, su quei giorni dell’estate del 1991, è come ripassare in rassegna una vecchia raccolta di istantanee; non quelle precise ed impeccabili cui siamo abituati oggi con le nostre moderne fotocamere, bensì quelle storte, sovraesposte e “alla buona” di allora.

Di quei giorni ricordo il caldo soffocante, il sole abbagliante, che ogni giorno faceva da cornice al misero svolgersi delle vicende umane di quella  torma inquantificabile che si era riversata in città e nei cui confronti nessuno sapeva ancora bene quale atteggiamento assumere.

Quell’anno tornai al lavoro dalle ferie prima del solito, perché mi ero sposato pochi mesi prima, e facevo il pendolare ogni giorno da Cassano a Bari, con le corriere della SITA, che allora credo avessero la loro fermata ancora di fronte alla stazione centrale.

Vissi l’arrivo della motonave “Vlora” da spettatore televisivo, ma ricordo ancora perfettamente lo sbigottimento che provai alla vista di quella marea di disperati, incerto, come tutti, su cosa pensare.

Il primo impatto fu qualcosa a metà fra l’esodo biblico e la deportazione in massa, stile repubbliche sudamericane: nell’impellenza della necessità, a Bari non trovarono di meglio che concentrare quell’esercito inerme nel vecchio Stadio “delle Vittorie”, Tempio del Bari che fu, per il quale tanti pomeriggi domenicali avevo sofferto e trepidato, da ragazzo.

Vedere quel prato, di cui ancora serbavo l’odore, ridotto ad una fogna a cielo aperto, coperto da una marea di stracci, capanni improvvisati e migliaia di bottigliette di plastica, mi faceva star male, ma ancora peggio mi faceva stare il veder ammassati lì dentro quei ventimila uomini e ragazzi, magri, con le loro facce stravolte eppure sorridenti, mentre con le dita a “V” ripetevano incessantemente quella parola magica: “democràzia”, con l’accento sulla a.

Apparve subito chiaro a tutti che, nascosto in mezzo a studenti, impiegati, elettricisti e chissà cos’altro, un preoccupante numero di elementi poco raccomandabili si fosse unito alla comitiva, e che questi fossero stati i primi a capire quale regime di controllo e sorveglianza gli fosse stato montato attorno, in attesa del da farsi.

Numerosissime furono le “evasioni” dallo stadio, con gruppetti di persone che si davano alla fuga verso il Borgo Antico o verso il centro cittadino, e da qui, i primi tafferugli con la malavita locale ed i poliziotti ed i vigili urbani, in autentici episodi caccia all’uomo, che finirono per l’impaurire ancora di più l’opinione pubblica.

Tensione alle stelle, caldo asfissiante, enormi problemi di logistica e sanitari.

Al Sindaco Dalfino, giunsero persino le rampogne del mondo politico e del Presidente Cossiga, per quella che, in effetti, fu una figuraccia in mondovisione, ma alla quale,  in realtà, nessuno era preparato.

Una delle località scelte per lo smistamento fu proprio Cassano: si rese disponibile (o si requisì –non ricordo-), un campeggio sulla via di Mercadante, e lì, in pochi giorni, un servizio-navetta provvide a trasportare un imprecisato numero di albanesi.

Ricordo benissimo come quella strada prese ad essere una interminabile passeggiata, da mattina a notte fonda, per quanti di essi, camminando sul ciglio della strada, facevano la spola tra l’accampamento ed il paese, con le loro buste di plastica, le bottiglie di acqua e le loro povere cose.

Anche qui, un fatto di cronaca –gravissimo stavolta-, contribuì ad accrescere il disagio tra i cassanesi, impreparati anch’essi a reggere l’urto materiale ed emotivo di quell’esodo: nel campeggio avvenne un omicidio, dai risvolti macabri, se ricordo bene.

Per quella struttura (se non ricordo male, la prima ad ospitare una piscina pubblica a Cassano) fu la fine: da allora giace nel medesimo stato in cui la si può scorgere ancor’oggi, dietro i suoi cancelli chiusi, in totale stato di abbandono.

L’integrazione (vocabolo fino ad allora ignorato) cominciò ad attuarsi, anche se molto lentamente e fra mille pregiudizi e difficoltà; qualcuno fra quelli che restarono a Cassano, cominciò ad offrirsi per qualche lavoretto in campagna; altri preferirono per mesi, bighellonare in giro per il paese o viaggiare sulle corriere per Bari, sprovvisti del biglietto ancorché di una motivazione per farlo.

Per me fu l’occasione di osservarli da vicino, come non mi era stato possibile fino ad allora, ascoltare i loro rari discorsi in italiano, guardarli negli occhi.

Mi facevano una grande tenerezza.

La stragrande maggioranza mi apparve totalmente sprovveduta a reggere l’impatto col nostro tipo di società: si erano lasciati ingenuamente indottrinare dalla nostra televisione, che ricevevano benissimo dall’altra parte del mare, ricavandone l’errata convinzione che l’Italia fosse quella delle pubblicità, del Chivas Regal, dei cioccolatini, dei soldi facili, delle belle donne e della libertà.

Vedevo in loro le facce, i lineamenti, le speranze dei nostri emigrati degli anni ’50; un popolo tenuto lontano dal corso della storia.

Cinquant’anni di ritardo che giustificavano il loro parlare sempre ad alta voce, il loro fumare dove non era consentito, il loro abbigliamento, la difficoltà di inserirsi, il guardarci con meraviglia.

Vent’anni non sono trascorsi invano: il tempo ha sistemato parecchie cose.

Oggi, se un buon numero di poderi è ancora tenuto in maniera decorosa lo si deve a loro; così come un buon numero di essi, uomini e donne,  collabora quotidianamente alla vita dei cassanesi nei più svariati modi.

In parecchi popolano il nostro centro storico; qualcuno ha addirittura comprato casa.

L’integrazione si è compiuta: lo si capisce dalla composizione delle classi scolastiche dei nostri figli, dagli elenchi del telefono, dalla gente che conosciamo e frequentiamo, da Cassano com’è oggi.

Credo, in definitiva, che nei loro riguardi, l’Italia sia stata per la prima volta quel “ponte” di collegamento con l’Europa e la modernità, del quale abbiamo spesso sentito parlare, ma del quale ci era forse ignoto il fatto che proprio a noi pugliesi spettasse il ruolo di protagonisti e di “addetti all’accoglienza”.

 

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